#2 La medica di me stessa. Le medicine orientali e come ci sono finita dentro
Un libro che mi ha cambiato la vita anche se me ne sono resa conto solo due giorni fa. Che cosa sono state e sono per me le Medicine Orientali. Che cosa vuol abbracciarsi intere
Il primo libro di medicina orientale che ho letto si chiamava Il medico di se stesso e l’aveva scritto uno studioso giapponese, Noboru Muramoto. Frequentavo Lettere a Bari e non so come sia finito tra le mie mani. Tra una lezione di linguistica e una di teoria della letteratura, io compravo tantissimi libri: poesia, romanzi, qualche volume di fotografia. Erano i primi anni 2000, Chandra si chiamava ancora solo Livia Candiani, leggevo Amelia Rosselli, Goliarda Sapienza e Tondelli, adoravo Nan Goldin e Francesca Woodman. Non ricordo cosa mi abbia incuriosito al punto da portare quel “manuale pratico di medicina orientale” prima in cassa e poi a casa con me. Solo adesso, ripensandoci a più di vent’anni di distanza, riesco a unire i puntini.
Per un inverno quel libro arancione e dorato, con le pagine gialle di carta spessa, è stato sul mio comodino, tra i cd e le dispense per gli esami. L’ho sottolineato, letto, riletto, poi credo di non averlo mai più aperto né, forse, di averci mai più pensato. Fino alla scorsa settimana, quando un reel di Teresa Cinque per lasvolta.it me ne ha ricordato l’esistenza.
Yin e yang. Energia, meridiani. Zuppa di Miso. La stagnazione di Fegato peggiora la Rabbia. Kudzu e umeboshi contro la nausea. Tristezza e lutti si annidano nel Polmone. La pelle reagisce come una sirena antincendio. Il cuore ha un’energia di Fuoco. L’inverno è la stagione dello stare. Non bere mai acqua cruda.
Erano concetti così nuovi e strani, così misteriosi ma magnetici. Difficilissimi, per una come me da sempre più a casa nella letteratura che nelle materie scientifiche. Eppure di sera, dopo un’intera giornata di studio, non vedevo l’ora di capirci qualcosa in più. Per capire, forse, qualcosa in più di me stessa.
In quegli anni credevo che, una volta laureatami, avrei provato un Dottorato e sarei finita a Parigi - o altrove purché lontana dall’Italia - a occuparmi di poesia contemporanea. Mai avrei pensato di fare delle medicine orientali la lente attraverso cui avrei guardato la mia vita e la mia salute psicofisica, men che meno di fare dello stare bene il fulcro del mio lavoro. In quegli anni facevo anche i conti cui con violente eruzioni cutanee, mal di testa, insonnia, perdita di capelli e un fortissimo, perenne mal di pancia (una allergia al nichel alla mucosa gastrica, avrei capito dopo, mai diagnosticata), oltre agli strascichi di un disturbo alimentare - anoressia nervosa, tecnicamente - per cui ero arrivata a pesare 44 chili.
Tramite la poesia, la fotografia, i romanzi, cercavo da sola le parole per dire ciò che nessun dottore era riuscito a spiegarmi. Che cos’è era davvero successo e continuava a succedere dentro quel corpo e quella mente - il mio corpomente - che, da quegli occhi estranei con camice e stetoscopio, mi veniva restituito solo come un affastellamento di pezzi rotti da riparare. Le eruzioni cutanee? Vai da un dermatologo. Il ciclo? Vedi un endocrinologo. Hai mal di pancia? Maalox, buscopan e un buon gastroenterologo. Non dormi? Prendi queste gocce.
Mi guardavano - e mi facevano sentire - come fossi un cumulo di macerie:
sintomi da spegnere, medicine da prendere, calorie da ingurgitare, funzioni da far ripartire. Eppure io sapevo di dover cercare qualcosa in più. Che qualcosa si era inceppato e non sarebbe ripartito, se non avessi avuto il coraggio di riavvolgere il nastro dall’inizio.
In tutti quei disturbi io intravedevo una radice comune, anche se non avevo idea di quale fosse, tantomeno dove cercarla. Praticavo yoga da qualche anno, leggere poesia era la mia forma di meditazione, avevo appena cominciato psicoterapia (con il più bravo e più controcorrente di tutti, a cui sarò grata per sempre, allora credo un giovane dottorando) : tutte “pratiche” sghembe e poco ortodosse - soprattutto più di venti anni fa, nella Puglia di vent’anni fa - che mi restituivano intera a me stessa, che mi restituivano l’unicità del mio corpomente. Erano tutte pratiche in cui ricompattavo i confini del mio corpo e attraverso cui trovavo il coraggio di esplorarne la terra.
Il libro di Muramoto arrivava ad aggiungere il tassello mancante: mi diceva che esisteva una medicina millenaria in cui i corpi venivano visti per intero e non solo sezionati come in macelleria. In cui un mal di testa non si doveva subito spegnere con un antidolorifico ma, anzi, diventava la voce di un organo, anche lontano dalla testa, in sofferenza. Una medicina in cui il medico aveva il compito di curare la salute, non la malattia. In cui si curava l’organismo visto come un complesso unitario e non solo il singolo pezzo rotto.
Per la prima volta con quel libro e poi, soprattutto, molti anni dopo, quando ho lasciato l’Italia e un lavoro a tempo indeterminato in una prestigiosa casa editrice milanese per trasferirmi in Inghilterra e conseguire il diploma triennale in Certified Holistic Nutritionist for Body and Soul® UK , le Medicine Orientali sono diventate la coperta con cui abbracciarmi e tenermi tutta insieme quando mi sembra di essere andata in pezzi. Le lenti con cui guardare al mio organismo e alle sue manifestazioni fisiche e psichiche in modo nuovo.
Per le Medicine Orientali, infatti, il corpo è molto più della somma delle parti. Non è solo un vestito di Arlecchino (l’apparato digerente, la pelle, il cervello, ecc.) di parti peraltro spesso malconce, ma un essere vivente organico (un organismo, appunto), da guardare nel suo complesso e nella sua complessità. I sintomi non sono visti come una mosca da scacciare, un fastidio da silenziare, ma come un messaggio da ascoltare. Non un accidente di cui disfarsi quanto prima, ma, al contrario, un segnale luminoso che indica il sentiero in cui provare a inoltrarsi per cercare la cura migliore.
Come mi ha detto la nutrizionista olistica Veronica Pacella in un articolo che ho scritto nel 2020 per Donna moderna dal titolo “Che cos’è la nutrizione olistica?”
«iI corpo tenta sempre di comunicare con noi attraverso i sintomi, si fa portatore di bisogni ed emozioni che si traducono in processi biochimici in grado di portare benessere o, al contrario, fastidi e problemi di salute. Olos, in greco, vuol dire tutto: le medicine orientali - come la medicina tradizionale cinese, la macrobiotica giapponese e l’ayurveda indiana - che sono alla base della nutrizione olistica considerano da sempre, l'individuo come unità inscindibile di corpo, mente, emozioni. La salute è energia vitale che scorre e disturbi e malattie sorgono quando questa, per abitudini alimentari, stili di vita o traumi, subisce un blocco e il suo flusso vitale si interrompe».
«The wound is not my fault, but the healing is my responsibility» ripeteva spesso uno dei miei Professori di Medicina Cinese in Inghilterra. Le ferite non sono mai colpa nostra, ma voler provare a capire come stare meglio è una nostra responsabilità. In questo senso, non guarire ma avviare il processo di guarigione è una nostra responsabilità. Diventare “medica di me stessa” per me vuol dire proprio questo: provare a capire quali siano gli strumenti migliori per provare a stare meglio*, in un dialogo fertile di discipline che non esclude la Medicina Occidentale, ma anzi la integra, la allarga, in una visione davvero olistica della cura e dell'organismo. Perché così come il cibo è molto più che carboidrati, proteine e grassi, noi siamo molto più che un ammasso di organi e funzioni. Siamo vivi e siamo unici. E così deve essere la nostra Cura.
*I miei sono senz’altro le risposte della psicoterapia, gli strumenti delle medicine orientali, il respiro profondo della mindfulness, la scrittura, la poesia, la cucina energetica e altri strumenti psicomagici, di cui avremo modo di parlare nelle prossime puntate di TERRACIELO. Grazie per avermi letta fin qui!
A giovedì prossimo
"abbracciarsi intere", che parole potenti.
Che bello conoscerti un po' di più (e rivedermi qua e là) attraverso la lente del benessere da una prospettiva olistica. E che bello sentire parlare di corpo, anima, mente, cuore, energia tutte in coesistenza all'interno di un unico ecosistema complesso e, soprattutto, immensamente saggio.
Mi hai fatto tornare in mente che quando studiavo psicologia a Londra la mia professoressa di neuroscienze ci spiegò un giorno che le nostre cellule sono come cestini di vimini, mentre le nostre emozioni e i nostri stati psicofisici sono ciò con cui li riempiamo. Possiamo scegliere giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto con che cosa riempirli: emozioni positive o negative. Scegliere l'una toglie spazio all'altra -- ogni volta che, più o meno consapevolmente, scegliamo lo stress per esempio togliamo spazio a gioia, soddisfazione, luminosità.
Fare tutto ciò che è in nostro potere per riempirli con felicità, serenità, ma anche solo la quieta e nutriente contentezza che arriva con la tranquillità crea una reazione a catena di benessere che si irradia per tutto il corpo, dall'intestino al cervello, dall'apparato circolatorio a quello endocrino.
Grazie per avermi fatto tornare in mente questa storia e per aver condiviso la tua. 🌸
Leggendoti ho pensato alla mia aloe e alla capacità delle piante di guarirsi lasciando andare dei pezzi e fortificandone altri, che poi è quello che provo a fare io e che di tanto in tanto mi riesce anche. Forse sono la mia aloe😉