#11 La maga delle spezie
Un romanzo che avevo dimenticato. La cucina energetica: l'Ayurveda, il Kitchari, la primavera, la mindfulness ai fornelli. Una ricetta per onorare il radicamento che ogni fioritura richiede.
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Tilottama, parola che in sanscrito vuol dire seme di sesamo, spezia sacra e ricca di nutrimento, è un’anziana signora indiana che vive e lavora in California, in una botteguccia nella baia di San Francisco, a Oakland. In realtà, nessuno la conosce con questo nome: per pochi intimi é Tilo, per i più, semplicemente, la maga delle spezie.
«So usare anche altro» dice. «Le gemme splendenti di luce fredda e limpida. I liquidi che ti accendono gli occhi di bagliori variopinti finché non riesci più a vedere altro. Ma la mia passione sono le spezie».
È una maga, dicevo, ma non crediate vi predirrà il futuro. L’Antica, la maestra a cui Tilo deve tutta la sua sapienza, non gliel’ha insegnato: “vi impedirebbe di sperare, – diceva alle allieve – di impegnarvi al massimo. Di avere piena fiducia nelle spezie».
Cardamomo, per evocare i sogni.
Semi di coriandolo, “sferico come la terra, per farci vedere chiaro. Bevendo l’acqua in cui lo si è messo a bagno ci si purifica dalle vecchie colpe”.
Zenzero dorato, “radice di contorta saggezza”, usato dai guaritori “per riaccendere la fiamma della vita quando brucia lenta nel ventre”, per darsi coraggio.
Curcuma, la cipria gialla che sale nell’aria della cucina “impalpabile come polvere d’oro, perduta, perduta”.
Pepe nero, per la sua capacità di far trapelare i nostri segreti più profondi.
Riso basmati, chicchi extralunghi conservati in sacchi di iuta perché diventi più dolce.
Il fagiolo mung, sacro alla luna, da consumare di lunedì, il giorno delle donne, in cui le figlie raccontano i segreti alle madri.
Scorrendo questo elenco di ingredienti sparsi tra le pagine de La maga delle spezie, un romanzo della scrittrice Chitra Banerjee Divakaruni che ho ritrovato nella mia stanzetta in Puglia la scorsa settimana, ho strabuzzato gli occhi: era proprio lei, Tilo, la maga delle spezie appunto, a consegnarmi la ricetta del Kitchari, uno dei piatti più preziosi e a me più cari della tradizione ayurvedica, l’antichissima scienza medica indiana.
Che cos’è il Kitchari
La parola kitchari significa miscela, miscuglio e, un po’ come nelle nostre ricette delle nonne, non ne esistono due versioni identiche. È tradizionalmente a base di riso, fagioli mung*, spezie e verdure e, per intenderci, è un po’ il “Chicken Soup for the Soul” dell’Ayurveda: quel cibo buono, soddisfacente e rassicurante a cui torni sempre quando hai bisogno di calma e comfort. In Ayurveda, proprio per le sue qualità medicinali, nutrienti e depurative, lo si trova spesso nei protocolli di pulizia (cleanse) consigliati ai cambi di stagione e come cibo-medicina indicato nei casi in cui Agni, il fuoco digestivo, tema centrale per la salute nelle medicine orientali, è “low”, “basso”. Ma che significano questi nomi? Vediamolo meglio.
Che cos’è il fuoco digestivo?
In Occidente diciamo spesso che "Siamo quello che mangiamo". Vero, ma in realtà sarebbe più corretto dire che "Siamo quello che assimiliamo" e, anche se suona un po’ meno romantico “siamo quello che digeriamo”. Spesso, infatti, ci affanniamo a comprare integratori, superfood e altre costose diavolerie per stare bene, senza però preoccuparci prima di “fare il tagliando” al nostro sistema digestivo. Senza cioè assicurarci prima di avere un sistema digestivo sano, in grado di digerire, assimilare e distribuire al meglio i nutrienti preziosi che possono venirci anche dal più comune - ed economico! - dei cibi.
Già Ippocrate (460-370 dc) diceva che “Tutte le malattie hanno origine nell'intestino”. La medicina occidentale, via via sempre più interessata a suddividere il corpo in una sommatoria di organi separati tra loro, aveva un po’ dimenticato questa lezione fino alla riscoperta, negli ultimi anni, del famoso microbiota intestinale (la definizione è di Jeffrey Gordon, nel 2000: prima si parlava di “flora batterica”, perché erroneamente si pensava che i microrganismi dell’intestino appartenessero al regno vegetale. Sipario). Nelle Medicine Orientali, invece, la centralità della digestione per la salute di tutto l’organismo non è mai passata in secondo piano. Ne è emblema il concetto dell’Elemento Terra in Medicina cinese collegato al Meridiano dello stomaco e di milza/pancreas e dell’Agni in Ayurveda, il fuoco digestivo appunto, che a me piace sempre spiegare così: immagina una fiammella, un piccolo fuoco che "brucia" nel tuo stomaco, irradiando di forza anche il resto del sistema digestivo (intestino). L'obiettivo è alimentare continuamente e costantemente questo fuoco, senza farlo crescere troppo né soffocarlo.
In che modo il Kitchari nutre e resetta l’energia del corpo?
In alcuni protocolli ayurvedici, si consiglia di fare un three-days renewal cleanse (quello che in Occidente chiameremmo “detox” di tre giorni: ma apro grandi virgolette e sul concetto di “detox” ci torniamo in Terracielo della prossima settimana, preparate i pop corn) a base unicamente di Kitchari, mangiando questo piatto a colazione , pranzo e cena, e accompagnandolo con tisane al finocchio, movimento dolce, camminate all’aria aperta. Non vi dico questo per consigliarvi di mangiare per tre giorni riso e fagioli, ma per spiegarvi la natura più intima di questo piatto, pensato, anche solo per un pasto, per supportare il corpo nei periodi di transizione come lo sono i cambi di stagione e utile, in generale, ogni qual volta si senta il bisogno di resettarsi, tirare una linea, ripartire. Con dolcezza e nutrimento.
Secondo l’Ayurveda, i benefici del Kitchari sono molti:
– è estremamente facile da digerire: essendo un “monomeal”, un piatto unico, facilita il lavoro dello stomaco, aiutato, peraltro, da particolari spezie carminative e digestive che aiutano a digerire i legumi e da quelle che attivano Agni
– ha alcuni componenti attivi (curcuma, pepe, zenzero, spezie) che sostengono sistema immunitario ed energetico del corpo
– è una ricetta Tridosha: aiuta cioè ogni organismo a ritrovare pace, equilibrio e centratura in modo gentile, senza affamarlo o strizzarlo in regimi alimentari imposti dalla mente al corpo (leggi i nostri “detox” a base di smoothie, succhi verdi, pillole e pilloline magiche)
Una lettura energetica:
Pur essendo un piatto della tradizione indiana, io ve ne proporrò una versione rivista alla luce della dietetica energetica propria della macrobiotica giapponese e della Medicina Tradizionale Cinese, per darvi un esempio concreto di cosa sia la cucina energetica cara alle Medicine Orientali:
– la presenza di foglie verdi, coriandolo e limone aiutano a liberare l’energia di Fegato (Tree Energy), particolarmente sollecitata in questa stagione;
– le spezie lavorano su cuore e intestino tenue (Fire Energy), ma anche sullo stomaco attivando la digestione (Earth Energy);
– il pungente dello zenzero, combinato al riso e a fagioli piccoli e compatti come i mung*, aiutano il colon e la pelle (Metal Energy);
– verdura in radice come le carote e il brodo salato e ricco di minerali grazie ad alga kombu e tamari/shoyu rinforzano i reni (Water Energy).
Eccolo, quindi, il cibo medicina in atto, che si prende cura della totalità dell’organismo corpomente e non si ossessiona su grammi, proteine, singoli nutrienti. Ecco un esempio di cucina olistica, di energia del cibo.
Il kitchari, per me
Per me, semplicemente, ormai da dieci anni, il kitchari è il modo con cui do il benvenuto all’energia della primavera e onoro il radicamento che ogni fioritura richiede. Cerco gli ingredienti come un piccolo rituale, che mi spinge ad andare oltre l’ordinario della spesa di ogni giorno, e poi mi prendo un po’ di tempo per preparare qualcosa che mi nutra, non solo che mi sfami, tornando a percepirne la differenza.
Un cibo che cioè nutra anche le energie del corpo e della mente, ristabilendo un equilibrio e aiutandomi a ritrovare il centro. Permettendomi di premere il tasto pausa quando sento l’energia centrale del corpo (la digestione) in subbuglio e mi vedo fuori forma e fuori fuoco, come mi capita spesso dopo la stasi invernale.
Un piatto di kitchari mi aiuta a ricordare che mi sento meglio quando introduco piccole abitudini con cui prendermi cura di me stessa e che posso farlo cominciando da quello che metto, ogni giorno, nel mio piatto.
Mi aiuta a ricordare che stare bene «ha un’aria comunissima, perché tale è la natura della magia più profonda. La magia più profonda che si nasconde nel cuore della nostra vita di ogni giorno, un guizzo di fuoco, se solo avessimo occhi per vedere».
Mi aiuta a ricordare che tornare in cucina – e affettare, tagliuzzare, tostare, macinare, mescolare – è una pratica meditativa: di pura mindfulness, presenza e ascolto. Un atto di grounding (radicamento) che ti costringe a stare, radicandoti nel qui e ora. Provate a essere sovrappensiero e non totalmente presenti mentre cucinate, ne vedrete delle belle.
Mi aiuta a ricordare che cercare il sacro e trattarsi con gentilezza è il contrario del lasciarsi trascinare da spirali di sensi di colpa e di autoflagellazione. È introdurre, con amore, piccole nuove abitudini, che, piano piano e con estrema naturalezza, scacceranno via quelle che non fanno più per noi.
Preparare un kitchari a primavera è, per me, un modo di fare l’inventario dei miei desideri. Un piccolo rito, con cui spargere un po’ di polvere di stelle, spezie e saggezza millenaria sulle nostre vite supercontemporanee e spesso disconnesse dai cicli naturali di cui invece facciamo parte.
La mia ricetta del kitchari ayurvedico:
INGREDIENTI per 4 persone:
250 g fagioli mung* messi a bagno per una notte (vanno bene anche le lenticchie gialle o rosse), 250 g di riso basmati, 1 striscia di alga kombu, 2 scalogni affettati, 3 spicchi d’aglio schiacciati, 1 pezzo di zenzero (4 cm) affettato a bastoncini, 4 carote tagliate a dadini, 1 gambo di sedano tagliato a cubetti, 1 cucchiaio di ghee o olio evo,
spezie: 2 foglie di alloro, 1 cucchiaio di semi di cardamomo aperti e pestati, 1 cucchiaio di cumino in semi, 1 cucchiaio di coriandolo in semi, 1 cucchiaino di cumino in polvere, 1 cucchiaino di coriandolo in polvere, 1 cucchiaino di curcuma in polvere, un bel po’ di pepe
Per servire:
300 g di spinacini freschi, 1 mazzetto di coriandolo fresco, il succo di un lime o limone, qualche tamari o shoyu
PROCEDIMENTO:
La sera precedente, sciacqua (fallo sempre con legumi e cereali! leggi qui perché) e metti a mollo i fagioli mung. La mattina dopo, butta via l’acqua di ammollo, sciaquali e scolali bene.
Tosta i semi di cumino, coriandolo e cardamomo in una padella asciutta, quando cominciano a sprigionare il profumo, aggungi velocemente anche il cumino e il coriandolo in polvere e togli la padella dal fuoco (le spezie in polvere bruciano facilmente). Pesta il tutto in un mortaio in pietra e metti da parte a raffreddare.
In una pentola a fuoco medio, metti l’olio (o il ghee se vuoi essere filologica, il burro chiarificato caro alla tradizione ayurvedica), le cipolle a cubetti, l’aglio (che avrai ridotto in poltiglia con lo schiaccia aglio) e lo zenzero a bastoncini. Quando le cipolle avranno assunto un colorito traslucido, aggiungi l’alloro, le carote e il sedano. Lasciali ammorbidire per qualche minuto, continuando a mescolare, quindi aggiungi i fagioli mung, ben scolati. Lasciali insaporire per un minuto, quindi copri con acqua abbondante. Aggiungi una striscia di alga kombu lunga 4-5 cm (ammorbidisce i legumi, agevola il tempo di cottura e la tua digestione!), chiudi la pentola e porta a bollore.
Quando bolle, aggiungi il riso ben sciacquato e scolato, abbassa la fiamma e lascia cuocere a fuoco lento per una ventina di minuti.
Aggiungi la curcuma, il pepe, le spezie già tostate, il tamari (o la salsa di soia, se non hai problemi con il glutine) e continua a cuocere per 5 minuti.
Spegni il fuoco e aggiungi le foglie di spinacino crudo, il coriandolo fresco (foglie e steli, tritati finemente con un coltello) e il succo di limone.
Accompagna con un pochino di verdure fermentate (attivano il fuoco digestivo) e servi ancora caldo.
*Postilla: I fagioli mung (o fagioli mungo, o fagioli indiani, o soia verde) non sono comuni nella nostra cucina né nei supermercati italiani. Probabilmente ne conosci i germogli, comunemente noti come “germogli di soia“, che avrai di certo visto nel banco frigo, tra le verdure tagliate e le insalate pronte, e probabilmente anche assaggiato in qualche Involtino primavera. In realtà, non sono affatto un tipo di soia e, tecnicamente, nemmeno di fagiolo: sono infatti una fabacea, ovvero un legume a se stante, e dall’ottimo profilo nutrizionale. 100 g di mung contengono, infatti, quasi 24 gr di proteine, più una buona dose di ferro, magnesio, fosforo e vitamine del gruppo B (acido folico in particolare). Proteine che però, come tutte quelle del regno vegetale tranne la soia, vanno completate con un cereale, il riso in questo caso, proprio come prevede la ricetta del Kitchari.
Buon radicamento e buona fioritura, a giovedì prossimo
Eccomi alla caccia dei fagioli mung per preparare questo piatto. Che bella lettura stamani
Ciao 😊 Sono piuttosto nuova qui su Substack e ti ringrazio per aver dato anche la possibilità di ascoltare questi articoli, spesso non ho il tempo di fermarmi a leggere e in 2h di macchina al giorno tengono compagnia. 🤍 È vero che la primavera è un momento forte di cambiamento, è un periodo (marzo/aprile per l'appunto) in cui mi ritrovo sempre con tante scelte da prendere, non sapevo della SAD.. pensi ci sia un modo per prepararsi a questo momento caotico di "rinascita"?