#20 Il segreto per vivere più a lungo? Gli altri
Da un paesino della Pennsylvania al tuo cuore: l'impatto delle relazioni e del famoso "villaggio" sulla salute. The Roseto Effect: ci si cura nella comunione, ci si ammala nella solitudine
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O cuore, fa’ conto d’avere tutte le cose del mondo
Omar Khayyâm, Quartine, Einaudi
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Sabato pomeriggio, come spero tutte e tutti voi, sono andata a votare. Per le europee e, nel nostro caso, anche per le comunali. Entrando al seggio, “stringendo la tessera elettorale come un biglietto d’amore”, ho ripensato al Roseto Effect. Da quando l’ho sentito nominare da Lissa Rankin, una delle mie docenti all’Institute of Integrative Nutrition, ci penso tutte le volte che incontro qualcuno, durante una consulenza o tra le mie amiche, che lamenta questo o quel disturbo aggiungendo qualcosa tipo “eppure io mangio bene”. Ne abbiamo già in parte parlato qui, ma oggi ho proprio voglia di percorrere con te la strada che, da un paesino della Pennsylvania, negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, arriva al tuo cuore. Passando da un seggio elettorale.
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The Roseto Effect
Nel secondo dopoguerra, Roseto, una cittadina della Pennsylvania fondata intorno al 1880 da immigrati del sud Italia, divenne celebre per avere un tasso di mortalità incredibilmente più basso rispetto a qualsiasi altra località statunitense.
Un medico locale, a metà degli anni Cinquanta, notò infatti che tra i residenti di Roseto i decessi per problemi cardiaci - che ancora oggi, insieme al cancro, sono la prima causa di morte nei Paesi Occidentali - erano relativamente rari e praticamente inesistenti se confrontati con la media americana del tempo. I dati, svelati da uno studio retrospettivo sugli anni tra il 1955 e il 1965, non smentirono questa sua intuizione: a Roseto si moriva solo quando si diventava naturalmente molto anziani.
Di infarto e attacchi di cuore non moriva praticamente nessuno: un uomo ogni 1.000 e una donna ogni 2000 abitanti (su una popolazione di 1600 persone: 1/1000 uomini e 0,6/1.000 donne), meno di un terzo che nel resto degli Stati Uniti, in cui la media saliva a oltre 3 uomini e quasi 3 donne ogni 1000 abitanti (3,5/1.000 per gli uomini e 2,09 /1000 per le donne). Come puoi immaginare, medici e ricercatori dell’epoca cominciarono a farsi una sola domanda: ma cosa c’è in Roseto che provoca meno attacchi di cuore?
«Sarà il cibo, certo! La famosa dieta mediterranea!» dissero, prima di scoprire che gli abitanti di Roseto mangiavano polpette fritte nel lardo, formaggio e salami, bevevano vino rosso a fiumi, erano italiani ma fumavano come turchi. Quindi no, la salutare dieta mediterranea, che veniva scoperta proprio in quegli anni, non era di certo la causa della loro longevità.
«Sarà qualcosa nell’acqua o nell’aria» ipotizzarono. Ma presto dovettero concludere che no, non erano né l’acqua né l’aria, che non erano ovviamente diverse da quelle dei paesini e delle comunità limitrofe, tutti in linea con la media nazionale.
«Saranno i soldi?» No, erano tutti working-class: quella classe operaia che finiva per accogliere e fagocitare i tanti migranti italiani che cercavano fortuna oltreoceano.
«Qualcosa nel DNA?» Nemmeno, perché studi sugli abitanti di Roseto in Italia svelarono che morivano di infarto esattamente come tutti gli altri.
Ma allora cos’era che non faceva ammalare di cuore gli abitanti di Roseto?
Cosa c’era, lì e solo lì, tanto potente da abbattere addirittura il tasso di mortalità?
Qual era la loro medicina di lunga vita?
Stranieri in una terra così lontana e diversa, si erano stretti l’uno all’altro. Genitori, nonni, cugini, zii e nipoti crescevano e invecchiavano, lavoravano e giocavano tutti insieme. Tantissime famiglie avevano 3 o 4 generazioni sotto lo stesso tetto. I legami comunitari venivano continuamente rinsaldati da cerimonie religiose e rituali che, oltre a far sentire uomini e donne parte di qualcosa, li riconnettevano agli antenati italiani e rinverdivano il sentimento collettivo delle origini della loro comunità. Nessuno a Roseto si sentiva mai solo, nessuno era mai solo, nessuno era mai privo di sostegno, amicizie e aiuti su cui contare. Non c’erano porte chiuse, c’era sempre un posto a tavola e un piatto caldo per chiunque avesse fame o avesse bisogno di un bicchiere di vino in compagnia, di comunanza gioiosa dopo il turno di lavoro. Non si sentiva la mancanza di politiche di assistenza governativa perché la comunità si prendeva cura della comunità, quando le persone non erano in grado di prendersi cura di se stesse.
Eccola, allora, la medicina di lunga vita: la connessione sociale, il profondo senso di comunità. L’elisir di lunga vita erano gli altri.
Le ricerche condotte su questa comunità tra il 1955 e il 1965 giunsero, infatti, tutte alla stessa conclusione: non c’entrava quanto cibo sano mangiassero, quante abitudini salutari (non!) avessero, quale aria respirassero, quanti litri di acqua bevessero (ehy, vi vedo con le bottiglie sulla scrivania perché “devo bere di più”!), ma quanto forte fosse il legame sociale che avevano. Era questo senso di appartenenza, coesione, familiarità con l’altro e presenza costante di sostegno e gioia dello stare insieme il più grande predittore della loro longevità.
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Roseto oltre Roseto
A partire dalla metà degli anni Sessanta questi equilibri cominciarono a sgretolarsi. I ragazzi cominciarono a desiderare di studiare e sposarsi al di fuori della comunità e gli adulti ad abbracciare la tipica vita suburbana americana. L’introduzione dello stile di vita occidentale - lunghe ore di lavoro e isolamento sociale, aumento dello stress, dieta basata su alimenti trasformati, magari consumati in fretta e senza nessuna gioia né condivisione - portò, nel giro di un decennio, un rapido aumento degli attacchi di cuore e dei decessi dovuti all’aterosclerosi. Alla fine degli anni Settanta, Roseto, varcata la soglia dell’American System, godeva di tutti i suoi vantaggi, soffriva di tutte le sue malattie.
Roseto non è un caso isolato. Quello che avvenne in quegli anni, tra quelle 1600 anime, è coerente con quello che si riscontra in molte ricerche sull’importanza delle relazioni sociali, su quel famoso “villaggio” di cui si parla sempre quando si parla di genitorialità (Gaia Family Hub, ti penso) e “famiglie che non ce la fanno a farcela”.
Gli studi sulle relazioni di sostegno da parte della famiglia, degli amici e delle organizzazioni sociali dicono tutte la stessa cosa: fungono da straordinari “ammortizzatori” dei fattori stressogeni che, prolungati nel tempo, aumentano il rischio di compromettere lo stato di salute e benessere. Uno studio ha rilevato che le persone con relazioni sociali più forti hanno una probabilità di sopravvivenza maggiore del 50% rispetto a quelle con relazioni sociali più deboli. Indipendentemente da quanti broccoli e matcha latte e avocado mangino.
Perché questo avviene? Per ragioni fisiologiche.
Noi siamo animali sociali: non lo dice solo il modo in cui abbiamo costruito la nostra cultura (famiglie, società, villaggi e città), ma quello in cui è costruito e funziona il nostro organismo.
Prendiamo il sistema nervoso. Quando ci sentiamo socialmente isolati, il nostro sistema nervoso entra in uno stato di allarme: il cervello limbico comincia a dare di matto e si attiva il nostro sistema nervoso simpatico, attuando il cosiddetto “stress response”, “fight or flight, lotta o fuggi”. Il corpo si riempie di cortisolo ed epinefrina, ormoni che, se prolungati in uno stato di stress cronico, ci mettono a rischio di malattie (cardiache ma non solo).
Ed è vero che, come abbiamo già visto per il detox, il corpo è una macchina meravigliosa e meravigliosamente capace di attivare i suoi meccanismi di autoguarigione. Ma: questi meccanismi naturali di autoguarigione funzionano solo quando il sistema nervoso si trova nella cosiddetta “relax response”, la risposta di rilassamento. Quando cioè, lasciato andare il “pericolo” (e lo stress e la solitudine vengono percepiti come tali dal corpo), entrano in gioco il sistema nervoso parasimpatico attraverso il nervo vago, che io amo chiamare “il nostro freno a mano dello stress”.
Il sistema nervoso “si rilassa” cioè quando si attiva il nostro senso di “belonging”, come direbbe bell hooks, o, come direbbe Lissa Rankin,
quando sentiamo di appartenere: a una comunità, a una storia d’amore, a una tribù che abbiamo scelto.
Ma pensa alla mamma single che sta cercando da sola di crescere tre figli e deve andare al lavoro e i bambini sono malati e lei non ha alcun aiuto. E che dire della sua vita sociale e della cura di sé? Il suo sistema nervoso è continuamente in stress response. E questo la mette a rischio di malattie e diminuisce la sua longevità.
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Nel seggio elettorale
Adesso finalmente è più chiaro perché ho ripensato a questa storia entrando al seggio elettorale e forse ti sembra anche meno peregrino che io parli di elezioni e politica aprendo una newsletter nata con lo scopo di raccontarti quello che ho capito in tanti anni di studi legati al benessere corpomente.
Lo ribadisco, perché per me:
ogni atto è politico, anche quello più minuscolo delle tue giornate;
ogni aspetto della nostra vita - incluse le relazioni che scegliamo di nutrire, ma anche quelle che lasciamo andare, perché non sono più allineate con chi siamo diventate - ha un impatto (addirittura misurabile, come in questo caso) sulla nostra salute e sul nostro benessere. E non lo hanno solo, come spesso siamo portate a credere, quante carote mangiamo e quanta acqua beviamo;
riflettere su cosa ci nutra davvero diventa un pezzo fondamentale del nostro benessere, per non cadere nella trappola che “mangiare bene” sia la nostra unica fonte di nutrimento e che “mangiare bene” sia l’unica cosa che serve per “stare bene”
Una delle frasi di bell hooks che più amo dice:
“Rarely, if ever, are any of us healed in isolation. Healing is an act of communion” — All About Love, 1999
La guarigione è un atto di comunione.
Ci si cura nella comunione, ci si ammala nella solitudine.
E come scrive Lissa Rankin in Mind over Medicine:
Non solo è nella natura umana desiderare ardentemente intimità e appartenenza: è anche una medicina preventiva fondamentale. Numerosi dati scientifici dimostrano che la solitudine e la mancanza di connessione sono un rischio maggiore per la salute rispetto al fumo o alla mancanza di esercizio fisico, e trovare la propria tribù è meglio di qualsiasi vitamina, dieta o regime di esercizio fisico.
L’inquinamento atmosferico aumenta la mortalità del 6%, l’obesità del 23%, l’abuso di alcol del 37%, la solitudine del 45%. La solitudine è pericolosa per la salute quanto fumare 15 sigarette al giorno.
Uno studio di Harvard che ha esaminato le vite di quasi 3.000 persone ha scoperto che coloro che si riuniscono per andare a cena fuori, giocare a carte, fare gite di un giorno, andare in vacanza con gli amici, andare al cinema, assistere a eventi sportivi, andare in chiesa e impegnarsi in altre attività sociali sopravvivono ai loro coetanei solitari in media di due anni e mezzo.
Se stai pensando che non hai una vita così ricca di relazioni e stimoli e ti stai perfino sentendo in colpa per questo, ti fermo subito. Come sempre, non c’è nessun giudizio o “si fa così” nelle mie parole. Credo che la solitudine contemporanea degli individui e dei nuclei familiari sia l’aspetto che più torna nei discorsi tra amiche, conoscenti, cerchi di donne, scambi su Instagram.
Se ti senti sola, sappi che lo siamo tutte. Ma spero che le mie parole servano solo a ricordarti che fare tornare a fare affidamento sulla comunità, sentirsi parte di qualcosa, sentire che c’è un Noi più grande e importante dell’Io, specie in tempi narcisisti e selfisti come i nostri, non è solo divertente. Può anche allungarti la vita. Anche questa è medicina.
Grazie per essere stata con Terracielo anche questa settimana. Anche questa è una piccola comunità, che non cura ma si prende cura, come amo dire io.
Grazie per aver scelto di farne parte. A giovedì prossimo
Link:
L’inquinamento atmosferico aumenta la mortalità del 6%, l’obesità del 23%, l’abuso di alcol del 37%, la solitudine del 45%. La solitudine è pericolosa per la salute quanto fumare 15 sigarette al giorno: un TedTalk in cui Lissa Rankin spiega The Roseto Effect e aggiunge un dettaglio importante per chi sta pensando: “ehy io sono introversa, da sola sto benissimo”
Un link di PubMed che lo spiega ancora più nel dettaglio scientifico. E anche un altro. E un altro.
C’è tantissimo lavoro dietro ogni puntata di questa newsletter: se ti va, qui puoi offrirmi un cappuccino (d’avena, grazie). Per affrontare altri 15 giorni di ballottaggio, credimi, avrò bisogno di caffeina!
Mi piace molto il concetto di "comunità che ti allunga la vita" ma allo stesso tempo l'accento su quello di equilibrio. Caratteri come i mie per esempio hanno bisogno di una comunità come rifugio ma non come sostegno, perché preferiscono l'indipendenza e spazi di solitudine. Ma è l'opportunità che fa la differenza, ovvero la consapevolezza di poter comunque intrattenere dei rapporti in una "tribù" di riferimento (anche perché noi siamo animali sociali, e la totale solitudine piace solo a eremiti e asceti).
Grazie Nina, questo articolo è davvero eccezionale e stimolante. Sono un economista e vedo forti legami tra queste lezioni per noi personalmente e come comunità, e la politica pubblica, la politica sanitaria, ecc. Come dici tu, ogni atto è politico.